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Marcelo MARTINESSI – Premio cinema

“Premio Ostana scritture in Lingua Madre” edizione 2019

Lingua guaranì (Paraguay)

Biografia

Regista e sceneggiatore paraguaiano. Ha studiato comunicazione all’Universidad Católica de Asunción e cinema nella London Film School e nella New York Film Academy. È stato borsista con la Fundación Carolina per il corso di specializzazione cinematografica in Casa América, Madrid.

Ha partecipato al Torino Film Lab, al Berlinale Talent Campus, Berlinale DocStation e Locarno Filmmakers Academy.

Lavora dal 1991 a cortometraggi, sia documentari che fiction e che hanno come oggetto il suo Paraguay. I suoi lavori documentari per la TV sono stati

Los Paraguayos (2007) – con prima uscita nel Festival de Cine di Biarritz – e Diario Guaraní (2016) basato sui diari del sacerdote gesuita Bartomeu Meliá durante la sua permanenza nella comunità Mby’a negli anni ‘50. Ha diretto anche il musical Paraguay Según Agustín Barrios (2008), che ripercorre l’universo visuale che ispirò il grande compositore.

Da sempre ricerca la relazione tra il cinema e la letteratura adattando testi di autori del suo paese. Ha diretto Karai Norte (2009), basato sul racconto breve di Carlos Villagra Marsal e ambientato durante la Guerra Civile del 1947. Il corto è stato girato in 16mm e in lingua guaraní, e presentato per la prima volta alla Berlinale, per poi partecipare a più di 40 festival cinematografici internazionali, ottenendo vari riconoscimenti, tra i quali: Miglior Cortometraggio nel Festival Internacional de Cine di Guadalajara (Messico); Premio Glauber Rocha al Miglior Film nella 36° Jornada de Cine de Bahía (Brasile); Premio Maestrale al Miglior Cortometraggio nel Babel Film Festival di Cagliari (Italia). Il cortometraggio successivo, Calle Ultima (2011), è il risultato del lavoro di un anno con bambini, bambine e adolescenti con storie di strada, sfruttamento sessuale e altre forme di esclusione sociale, nella città di Asunción. Anche questo corto è stato presentato per la prima volta alla Berlinale e proiettato poi al Clermont-Ferrand, Biarritz e altri festival.

Ha ottenuto vari premi in Argentina, Brasile, Spagna e Italia. El Baldío (2013) invece è basato su un racconto di Augusto Roa Bastos ed è stato presentato per la prima volta alla Cinémathèque Française di Parigi.

Marcelo Martinessi è stato anche consulente per l’area audiovisiva del “Museo Virtual de Memoria y Verdad sobre el Stronismo” (MEVES), piattaforma web sui crimini commessi durante la dittatura (1954-1989). Ha partecipato alla creazione della TV Pubblica Paraguay, di cui è stato il primo Direttore Esecutivo dal 2010 fino al colpo di stato del 2012. Cogliendo il momento traumatico della sua nazione in quel caos politico, ha scritto e diretto “La Voz Perdida”, vincitore del Premio Orizzonti al Miglior Cortometraggio nella 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2016.

Ha diretto per un anno la rete di Televisione Pubblica TAL (Televisión América Latina) con sede a San Paolo fino al 2013, anno in cui è stato selezionato per ‘La Residence’ della Cinefondation – Festival de Cannes – per realizzare la sua prima sceneggiatura di un lungometraggio. Da allora ha iniziato a dedicarsi a pieno nella scrittura del film ‘Las Herederas’. Il film è stato girato nel 2017 e proiettato per la prima volta alla Berlinale a febbraio 2018, vincendo l’Orso d’Argento per la Migliore Attrice (Ana Brun) e l’Orso d’Argento – Premio Alfred Bauer per il cinema che apre nuove prospettive. Da allora ha ottenuto decine di riconoscimenti nei festival di tutto il mondo.

Motivazione Premio Speciale

Il cinema di Marcelo Martinessi rappresenta un’importante testimonianza del valore politico dell’arte cinematografica per la vita di una lingua minoritaria. La lingua guaranì, parlata da circa 5 milioni di persone nell’America meridionale, ritorna in alcuni film importanti della recente cinematografia del Paraguay, grazie ad un’attenzione che sa guardare alla musicalità della lingua senza mai separarla dai volti e dalle storie sociali del popolo e delle comunità che hanno segnato la storia di questo paese.

Al Premio Ostana il cinema di Martinessi è rappresentato dai 4 film – Karai Norte (2009), Calle ultíma (2010), La voz perdida (2016) e Diario Guaraní (2016). Il riconoscimento vuole testimoniare che la lingua può essere il sostrato del cinema di qualità quando essa diventa essenziale dal punto di vista narrativo e storico. La lingua guaranì dice che non si può nascondere la verità di un popolo senza sottrarle visibilità. Persino nei volti silenziosi del mondo che ci restituiscono questi film si sente l’anima guaranì e il cinema che racconta la realtà non può evitarlo. Il prezioso lavoro del regista di Asunciòn, senza tralasciare il lavoro fatto con la televisione pubblica che lo ha visto protagonista, si inserisce in questo orizzonte di valorizzazione dei valori più profondi di una comunità linguistica.

ANTOLOGIA MARCELO MARTINESSI

2009 – Karai Norte

(Cortometraggio – presentato al Berlinale Shorts)

2011 – Calle Ultima

(Cortometraggio – presentato al Berlinale Generation)

2016 – La Voz Perdida

(Cortometraggio – Premio Orizzonti al Miglior Cortometraggio alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

2016 – Diario Guaraní

(Documentario)

Il cinema Guaranì di Marcelo Martinessi

di Antonello Zanda

Non conosciamo abbastanza del cinema paraguayano attuale, quali anime si agitano dentro. Però solo da qualche anno, grazie anche ai successi internazionali di alcuni cortometraggi di Marcelo Martinessi – e al suo recente lungometraggio Le ereditiere (Las herederas, 2018) che è stato presentato alla Berlinale di quest’anno strappando il premio per la miglior attrice (Ana Brun) – cominciamo ad avere un’idea di cosa si muove in questo piccolo paese latinoamericano, che uno scrittore come Arturo Roa Bastos ha definito una isla rodeada de tierra, un’isola circondata dalla terra. Uomini, donne, bambini sono il centro narrativo del cinema di Martinessi, ma non in quanto tali, piuttosto in quanto esseri sociali e storici: una povera donna derubata nella landa desertica del Chaco in Karai Norte (2009), bambini ed adolescenti di strada in Calle ultíma (2010), i campesinos massacrati dalla polizia in La voz perdida (2016). E poi il bellissimo documentario Diario Guaraní (2016) che ha invece al centro la figura di Bartolomeu Melià, un gesuita antropologo che ha lottato per i diritti delle comunità Mbya Guaraní e che per questo fu espulso dal paese.

Marcelo Martinessi, classe 1973, è un regista le cui immagini hanno una potenza estetica straordinaria e raccontano il Paraguay, passato e presente, un paese situato nel cuore dell’America Latina, ma, tutto sommato, poco conosciuto anche in questo continente, per non parlare del mondo. Un’isola circondata della terra dà l’immagine di un luogo non facilmente accessibile, oppure ignorato, anche accidentale, invisibile e muto. E invece il cinema del regista di Asuncion lo restituisce alla sua viva sensibilità, avvertendo la verità del reale nei volti e nella lingua dei parlanti, testimoniando una presenza storica che è la storia stessa del paese perché è la storia delle comunità che ne costituiscono il fondamento umano. Parlare di lingua minoritaria, di guaranì, nel cinema di Martinessi, vuol dire muoversi dentro questo orizzonte visivo che è la natura artistica della visione del regista. Ma vale la pena guardare a ciascuno di questi 4 piccoli capolavori del cinema paraguaiano in cui la lingua guaranì ha un ruolo politico e culturale deerminante.

Il primo film in ordine di tempo, Karai Norte ( 2009), girato in 16mm con un bianco e nero espressivo ruvido e ventilato, ha consentito al regista paraguaiano di vincere molti premi, tra i quali il prestigioso Glauber Rocha Prize, considerato il premio più importante del 36° Cinema Day a Bahia, in Brasile. Il cortometraggio rappresenta anche il segno di una rinascita del cinema paraguayano, dopo tanti anni di silenzio e assenza. All’origine del film c’è il racconto “Arribeño del Norte” di Carlos Villagra Marsal, scrittore, poeta e saggista, oltre che promotore culturale, che ha insegnato letteratura guaraní all’Università e ha anche ricoperto la carica di Ministro della politica linguistica nel 2011. Il racconto di Villagra Marsal è scritto in spagnolo, ma l’autore l’ha scritto inseguendo le fonti della tradizione orale a seguito della guerra civile paraguaiana (1947) e il film di Martinessi riporta il racconto alla sua lingua originale.

Il film racconta una piccola storia che mostra la dimensione esistenziale del Paraguay di molti anni fa, ma in un orizzonte di infinita immobilità, che è l’eterna lotta del bene e del male, del debole e del forte, del predestinato e dell’artefice del proprio destino. Entrambi gli estremi scrivono una storia già scritta, ma che ogni volta è testimoniata in un modo diverso e diventa, in chiave contemporanea, la quotidianità sempre diversa e sempre uguale. La stessa lingua minoritaria, il suo deposito di valore esistenziale, porta con sé questo bagaglio: la lingua minoritaria è sempre la lingua dei perdenti, dei deboli, dei poveri, degli inermi, di chi subisce. In Paraguay è il guaranì, un ramo delle lingue tupi parlata anche in altri stati dell’America meridionale (quasi 5 milioni di persone, di cui oltre 4,5 milioni in Paraguay e il resto sparsi tra Argentina, Bolivia e Brasile). La lingua maggioritaria è la lingua dei forti, di chi impone la sua volontà, di chi usa la violenza, dei ricchi: qui è lo spagnolo. Ci sono pochi ma evidenti riferimenti temporali nella storia di Karai Norte, e nonostante ciò tutto sembra sospeso nel tempo. Il vento sembra essere il sostrato del tempo che viaggia in un vorticoso ritornare per quelle lande desertiche, scolpite dal caldissimo sole che brucia la vita. Il film è un adattamento fedele del racconto di Villagra Marsal, che sembra una sceneggiatura pronta a ritrovarsi nel ritmo della lingua guaranì. L’attenzione estetica del regista è per la solitudine dei personaggi e soprattutto per l’immediata dignità della donna protagonista, distillata nei grumi di parole strappate al silenzio (ogni volta che parla lo fa per dire l’essenziale, senza nulla di più). Lo spazio è quello arido e desolato di un ranch, in realtà una baracca, situata ai confini del Chaco. La donna, che ha lunghi capelli bianchi e parla perfettamente il guaraní, è interpretata da Lidia Viuda De Cuevas, che non ha mai fatto l’attrice e che oggi vive ancora nella sua città natale, Emboscada, vendendo i cappelli di paglia che produce. L’altro personaggio del film è l’arribeño del Norte, una sorta di montanaro del Nord, interpretato da Arturo Fleitas. L’uomo incrocia di passaggio la vita della donna ed è un uomo che scappa da un passato (ci sono riferimenti espliciti alla guerra civile recente), ma che non riesce a sfuggire al destino della violenza, che segna il passo del suo cammino. Lei condivide con lui il poco cibo che possiede vivendo in una miseria estrema, che l’immagine filmica ci racconta nei dettagli della baracca e nella preparazione del pasto frugale. Se Martinessi ha scelto Fleitas perché è un attore di teatro e televisione professionista (immagine di uno schema storico politico evidente), la scelta sulla donna che non ha mai fatto l’attrice è avvenuta per le sensazioni che restituiscono il suo viso, la pelle, l’espressione trasparente, la sua umiltà genuina: un uomo dentro il mondo e che conosce il mondo affrontandolo con il naturale cinismo della conoscenza di fronte a una donna fuori dai giochi, inerme, materia pura, una piuma che vola incontrollabile sulle ali del vento e che ancora urla il suo orrore nel finale impressionante del film. In un certo senso Lidia Viuda De Cuevas restituisce sé stessa come punto di congiunzione tra passato e presente e conferisce al film quel taglio reale che lo fa assomigliare a una verità trascendentale.

Karai Norte ha avuto numerosi altri importanti riconoscimenti, tra i i quali: miglior cortometraggio iberoamericano al 24° International Film Festival di Guadalajara, in Messico; miglior regista all’XI Concorso per cortometraggi di Madrid, Spagna; menzione speciale al Festival internazionale del cinema di Cartagena de Indias, Colombia; miglior fiction, miglior regia, miglior suono e miglior attrice al 36° Festival Internazionale del Cinema di Salvador, Bahia. Non ultimo per importanza il Premio Maestrale per il miglior cortometraggio al Babel Film Festival, 2ª edizione del 2011 a Cagliari.

E un altro premio Maestrale, per il miglior cortometraggio al Babel Film Festival nella sua 3ª edizione del 2013 a Cagliari, Martinessi lo ha vinto anche con il secondo film, Calle Ultima, del 2010. Il film guarda alla vita dei ragazzi che vivono per le strade di Asunción, e la protagonista, Miriam, un’adolescente di 13 anni, vive male il suo rapporto con la famiglia, con la scuola e l’ambiente sociale. Lo spunto del film è legato a lei, che va a scuola scalza perché non ha le scarpe e per questo motivo i compagni la prendono in giro. Lei vive dentro questo disagio e il film la segue in questa ricerca di un paio di scarpe, dentro la trama urbana di una giornata qualunque della vita quotidiana di questi ragazzi che vivono per le strade. In questo spazio di ricerca urbano, nell’oscurità delle strade che stingono i contorni esistenziali, Miriam incontra lo scherno dei compagni, ma anche i rimproveri di un patrigno – indispettito perché lei si ostina ad andare a scuola invece che lavorare -, il silenzio di una madre assente, ma anche la sincera amicizia di un compagno di strada, il fidanzatino, anche lui spinto dal ritmo della sopravvivenza personale (rubare, fumare crack e ballare hip hop in strada per sopravvivere), ma che in un gesto di affetto, tanto intimo quanto apparentemente distaccato per lei, le procura un paio di mocassini così che possa continuare ad andare a scuola.

Il film nasce da una iniziativa del Consorzio Ludoca, costituito dalle organizzazioni non governative Luna Nueva, Don Bosco Róga e Calle Escuela, che ha promosso workshop e attività a cui hanno partecipato molti ragazzi e ragazze che vivono per le strade di Asunción. Il racconto quindi nasce dalla creatività dei piccoli protagonisti, tutti bambini e adolescenti esclusi, che vivono condizioni di marginalità anche estrema per le strade, tra violenza e sfruttamento sessuale. “Era un lavoro a lungo termine, i ragazzi hanno avuto un primo approccio con le telecamere e hanno scritto la sceneggiatura, creato i dialoghi e raccontato le loro esperienze, tutto ciò che ho fatto è stato metterlo insieme”, ha detto Martinessi. Il guaranì veicola questo sforzo creativo liberando le energie più intime, quelle che li costringono a guardare dentro sé stessi. Lorena Esquivel, Lorena Vera, Gladys González e Jorge Rojas sono solo alcuni dei 17 ragazzi che hanno partecipato al corto dentro un progetto orientato alla “Prevenzione della violenza contro i bambini e gli adolescenti che vivono per strada, sotto lo sfruttamento sessuale o qualsiasi altra condizione di esclusione sociale”. Molto diverso esteticamente da Karai Norte, il film si muove sulla linea di un pedinamento continuo dei ragazzi, allungando e accorciando continuamente la distanza che li separa da sé stessi e dal film, dal presente e dal futuro.

La voz perdida (2016) ha partecipato alla Mostra di Venezia e ha vinto il premio nella sezione Orizzonti. È un potente cortometraggio politico, parlato in spagnolo e in guaranì, che si muove sullo sfondo di una voce radiofonica che racconta il massacro di Curuguaty del 2012. Le immagini invece guardano alla madre di una delle vittime del massacro, che racconta cosa significa la perdita di un figlio. La presenza della radio e della cronaca giornalistica mette dentro il film la concezione del servizio pubblico di Marcelo Martinessi, una tv e una radio che devono dare voce al popolo, farlo partecipare e testimoniare dei suoi problemi e dei suoi bisogni, ma anche del suo pensiero, della sua sensibilità. Martinessi era alla guida della tv pubblica quando accadono i fatti e ha vissuto in prima persona il dolore della prova di fuoco di una informazione presente e responsabile.

I fatti risalgono al 15 giugno 2012, quando un battaglione della polizia fu inviato a Curuguaty con l’ordine di sgomberare un gruppo di campesinos che occupavano la tenuta agricola Marina Cué, al centro di un conflitto tra lo Stato e la famiglia di un imprenditore anche esponente del partito di opposizione, chiedendo che fosse inserita nella riforma agraria. Morirono 11 campesinos e nessuna indagine fu fatta sulla loro morte. Morirono anche 6 agenti di polizia e per la loro morte i diversi campesinos arrestati furono condannati. In realtà su quei fatti non è mai stata chiarezza. Il film restituisce la voce del cronista che in diretta racconta quello che succede. Su questo sfondo sonoro si staglia la voce guaranì della madre di una delle vittime del massacro, e la lingua quotidiana emerge con un distacco forte, marcando la separazione e la diversità rispetto al dominio della lingua ufficiale. Quel fatto fu anche la ragione che causò la caduta del governo progressista di Fernando Lugo, avvenuta 7 giorni dopo, il 22 giugno, il quale aveva conseguito importanti e positivi risultati sociali e democratici. Con l’esperienza di Lugo si chiuse anche il TV Paraguay pubblico. Tutto si tiene insieme nel cinema di Martinessi: la voce della donna, i fatti di sangue, il valore della democrazia, l’importanza di un’informazione attenta e libera, la lingua parlata. Public TV Paraguay era nata nel 2010, da una spinta dal basso, dai dibattiti sul mondo contadino, studentesco e culturale, nel segno della trasparenza e di una reale vocazione di pubblica utilità. Rispetto a quegli anni la vita democratica oggi in Paraguay è fortemente regredita. Il senso del film è in questo doppio segno di assenza-presenza, in questo dialogo estetico tra il mondo reale del dolore e la evocazione, la sua memoria. Se ci pensiamo bene, questo doppio carattere è dentro il suono della voce perduta di una lingua, essere depositario di una memoria stratificata che si scontra contro la realtà che la mette a tacere

Diario guaranì, il documentario realizzato da Martinessi nel 2016, sembra raccogliere in sintesi tutti questi elementi di realtà in cui il passato e il presente si stringono insieme, ne testimoniano il valore politico e resistenziale. Non solo lingua ma la sopravvivenza stessa dell’umano è messa a rischio in questa perdita della voce della memoria. La storia del gesuita Bartolomeu Melià e del lavoro svolto per la comunità Mbya Guaraní ne sono il segno emblematico. Melià, con lo spirito vivo dell’antropologo, alla fine degli anni Sessanta andò a vivere nella foresta di Caaguazú, nel mondo del popolo Mbya Guaraní, per raccogliere, armato di un registratore, i canti tradizionali, le voci rituali e la lingua di un popolo indomito. Il gesuita racconta con precisione la sua esperienza nei suoi diari e dai suoi diari ritornano nel film di Martinessi. Quel lavoro gli costò nel 1976 l’esilio dal Paraguay perché aveva denunciato la persecuzione contro l’Ache-Guayaki, tribù di cacciatori-raccoglitori che vive nel Paraguay orientale. Martinessi dopo 50 anni riporta il vecchio gesuita e antropologo tra quelle popolazioni, dove rincontra il vecchio amico, Lutarco López, ancora leader della comunità che ancora oggi resiste al rischio di estinzione. Suoni e vecchie registrazioni, ma anche fotografie, vecchi giornali aiutano il gesuita a ripercorrere il viaggio a ritroso, a rivivere quell’esperienza che gli costò l’esilio. Martinessi lo accompagna in questo viaggio e fa riemergere la memoria di allora per riattualizzarla. E con la memoria riemerge anche il contesto storico di quegli anni, la dittatura del presidente Alfredo Stroessner e del suo Partido Colorado che governarono dal 1954 al 1989. Il governo che vantava di aver dato ospitalità ai criminali di guerra nazisti, tra cui Josef Mengele, e che spesso veniva definito dalla stampa estera “regime nazista”.

È però quella comunità di uomini e donne in quanto spinti verso la marginalità delle possibilità esistenziali, oltre l’orizzonte del futuro pensato, che è veramente il cuore del documentario. La lingua guaranì è la colonna sonora portante di questo e degli altri film del regista, perché la lingua àncora quelle vite alla materia dell’esistere quotidiano, li incolla a un presente rivissuto, o un vissuto ripresentato. Questo significa stare dentro l’attenzione per i temi sociali che Martinessi conferma in tutti i suoi lavori: l’uomo in quanto essere sociale ha nella lingua sopravvissuta un’alternativa, a un tempo politica e naturale, alla lingua dei dominatori che cercano di spazzarne via l’esistenza.

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