Manuel RIVAS – Premio internazionale
“Premio Ostana scritture in Lingua Madre” edizione 2019
Lingua gallega (Spagna))
Biografia
Una delle figure più rappresentative della narrativa gallega contemporanea è lo scrittore, poeta e giornalista in lingua gallega e spagnola: Manuel Rivas Barrós.
Nato a La Coruña (Galizia) nel 1957, inizia a soli 15 anni la carriera giornalistica, scrivendo per il giornale El ideal Gallego. Si trasferisce a Madrid per studiare Scienze dell’Informazione presso l’Università Complutense e continua a lavorare nel mondo del giornalismo. In quel periodo fonda il primo settimanale scritto interamente in lingua gallega, Teima, nell’anno 1977, e il mensile Man Común. Dopo la laurea torna in Galizia e collabora con la stampa, la radio e la televisione. Diventa vicedirettore di Diario 16 e responsabile della rubrica culturale di El Globo. Scrive anche per il Diario de Galicia e La voz de Galicia. Tutti questi impegni lo portano a vincere nel 1991 il Premio Fernández Latorre per il giornalismo. Nell’ottobre del 2003, insieme a Xurxo Souto, diventa padrino della radio comunitaria CUAC FM (La Coruña) e si cimenta come presentatore in un programma di dibattiti chiamato El faro. Attualmente collabora con il giornale El País.
Una buona parte dei suoi migliori reportage, in spagnolo, sono raccolti in El periodismo es un cuento (1998), usato come libro di testo in numerose Facoltà spagnole di Scienze dell’Informazione, così come nei volumi Toxos e flores (1992), Galicia, el bonsái atlántico (1994), Galicia, Galicia (2001), Mujer en el baño (2004) e Una espía en el reino de Galicia (2004).
La sua carriera letteraria inizia con la poesia e precisamente con la pubblicazione nel 1979 della raccolta “Libro do Entroido”. Negli anni settanta diventa cofondatore del gruppo Loia e pubblica nella rivista omonima i suoi primi versi. Successivamente scrive varie raccolte di poesie e antologie come O pobo da noite (1996) e El pueblo de la noche y mohicania revisitada,(2004), A desaparición da neve (2009), A boca da terra (2015).
Si addentra alla narrativa con il romanzo breve per ragazzi Todo ben (1985), rivolto ad un pubblico giovane. Tra le varie opere che seguono questo inizio, ricordiamo il libro di racconti Un millón de vacas (1990), vincitore del Premio della Critica Spagnola ed il racconto En salvaxe compaña (1994), per il quale riceve il Premio della Critica della Narrativa Gallega. Nel 1996 pubblica la raccolta ¿Qué me quieres, amor?, che tratta di amori e di solitudine intrecciati con umorismo e tenerezza.
Tra di essi compare il racconto A lengua das bolboretas a cui si ispira il regista José Luis Cuerda per girare il film omonimo La lengua de las mariposas (1999). Con questo libro ottiene il Premio Nazionale della Narrativa, il Premio Torrente Ballester, e viene tradotto in varie lingue. Oltre ai racconti, Rivas scrive anche romanzi di successo come O lapis do carpinteiro, El lápiz del carpintero (1998), basato su una storia vera e tradotto in 33 lingue, grazie al quale vince diversi premi tra cui il Premio della Critica Spagnola e il Premio de la Asociación de Escritores en Lingua Galega e cattura l’attenzione di Antonio Reixa che lo trasforma in un film.
Del 1999 è la raccolta di tredici racconti sentimentali scritti con un linguaggio attento, accurato, in cui realtà e finzione si uniscono indissolubilmente che ha come titolo Ella, maldita alma. Tra le opere posteriori ricordiamo i racconti di As chamadas perdidas, Las llamadas perdidas (2002) vincitore del Premio della Critica, Contos de Nadal (2003) e dello stesso anno Nosotros dos. Nel 2005 si mette in discussione nel campo del teatro con l’opera El héroe. Nel 2006 collabora con il giornalista italiano Giorgio Visciglia per la stesura di un articolo sulle dittature.
Tra le altre opere ricordiamo anche il romanzo Os libros arden mal (2006) e il saggio A cuerpo abierto (2008). Nel 2010 scrive Todo é silencio, Todo es silencio, pubblicato anche in Inghilterra nel 2011, opera finalista del Premio Hammett, è un romanzo giallo, poliziesco, adattato al cinema in un film nel 2012 diretto da José Luis Cuerda. Nel 2012 pubblica un’opera molto personale, autobiografica As voces baixas (Las voces bajas), in cui ritorna alla sua infanzia (insieme a sua sorella Maria).
Come dice Rivas, “quello che racconto non è l’enigma che sono; posso solo capire una parte dell’enigma che sono, attraverso il racconto”.
Nel 2015 pubblica El último día de Terranova, romanzo che parla del post-guerra spagnolo e della transizione, partendo dalla vita di una libreria de La Coruña, minacciata di dover chiudere.
Nel 2016 pubblica A boca da terra/La boca de la tierra e nel 2018 vede la luce l’opera Vivir sin permiso y otras historias de Oeste.
Rivas non è solo un autore di poesia, narrativa e saggi, è anche un attivista interessato ai problemi ambientali: è stato socio fondatore di Greenpeace in Spagna e per diversi anni ha svolto funzioni direttive in questa organizzazione. La sua attività è stata di fondamentale importanza in seguito al disastro della petroliera Prestige, partecipando alla creazione della piattaforma cittadina Nunca Máis.
Nel 2009 è stato eletto membro della Real Academia Gallega e nell’ottobre del 2012, gli è stato conferito il titolo di dottore honoris causa dall’Universidad de La Coruña in riconoscimento della sua difesa e promozione della lingua e della cultura gallega. Con Feltrinelli ha pubblicato il romanzo Il lapis del falegname (2000), il libro per bambini Il pirata testa matta (2001), la raccolta di racconti La lingua delle farfalle (2005) e il romanzo I libri bruciano male (2009).
Motivazione
Nel panorama della letteratura mondiale Manuel Rivas è una rara eccezione per la sua capacità di maneggiare il linguaggio, per l’autenticità, la tenerezza delle sue storie e la profonda risonanza poetica delle sue parole. I suoi libri hanno attratto lettori non solo del continente europeo ma anche di quello americano. La sua opera letteraria è soprattutto in gallego. Ha fondato diverse riviste letterarie in questa lingua. Alcune delle sue opere sono state adattate al cinema ottenendo molto successo. La varietà e la ricchezza dei contenuti, l’originalità, l’ironia e la solida capacità espressiva caratterizzano questo autore che ha saputo diffondere una lingua ed una cultura in tutto il mondo. Abile giocoliere delle parole, sa combinare la mitologia infantile con la realtà del mondo quotidiano cimentandosi altresì in diversi generi letterari senza tralasciare l’attivismo a favore dell’ambiente. Vincitore di molti premi, il Premio di Ostana gli viene assegnato per la sua lunga carriera creativa.
Antologia
TESTO ANTOLOGIA: GALLEGO
A lingua das bolboretas
De “Que me queres, amor?” (1995, Editorial Galaxia)
“Que hai, Pardal? Espero que este ano poidamos ver por fin a lingua das bolboretas”.
O mestre agardaba desde había tempo que Ile enviasen un microscopio aos da Instrución pública. Tanto nos falaba de como se agrandaban as cousas miúdas e invisíbeis por aquel aparello que os nenos chegabamos a velas de verdade, como se as súas verbas entusiastas tivesen o efecto de poderosas lentes.
“A lingua da bolboreta é unha trompa enroscada como un resorte de reloxo. Se hai unha flor que a atrae, desenrólaa e métea no cáliz para zugar. Cando levades o dedo humidecido a un tarro de azucre, a que sentides xa o doce na boca como se a xema fose a punta da lingua? Pois así é a lingua da bolboreta”.
E entón todos tiñamos envexa das bolboretas. Que marabilla. Ir polo mundo voando, con eses traxes de festa, e parar en flores como tabernas con bocois cheos de xarope.
Eu quería moito a aquel mestre. Ao primeiro, os meus pais non podían crelo. Quero dicir que non podían entender como eu quería ao meu mestre. Cando era un picariño, a escola era unha ameaza terríbel. Unha palabra que cimbraba no ar como unha vara de vimbio.
“Xa verás cando vaias á escola!”
Dous dos meus tíos, como moitos outros mozos, emigraran a América por non ir de quintos á guerra de Marrocos. Pois ben, eu tamén soñaba con ir a América só por non ir á escola. De feito, había historias de nenos que fuxían ao monte para evitar aquel suplicio. Aparecían aos dous ou tres días, aterecidos e sen fala, como desertores do Barranco do Lobo, no norte de Africa.
Eu ía para seis anos e chamábanme todos Pardal. Outros nenos da miña idade xa traballaban. Mais o meu pai era xastre e non tiña terras nin gando. Prefería verme lonxe que non enredando no pequeno taller de costura. Así pasaba gran parte do día a corricar pola Alameda, e foi Cordeiro, o recolledor de lixo e follas secas, o que me puxo o alcume. “Pareces un pardal”
Coido que nunca corrín tanto como aquel verán anterior ao ingreso na escola. Corría como un tolo e ás veces sobrepasaba o linde da Alameda e seguía lonxe, coa mirada posta na cima do monte Sinaí, coa ilusión de que algún día me sairían ás e podería chegar a Buenos Aires.
Mais nunca sobrepasei aquela montaña máxica.
“Xa verás cando vaias á escola!”
O meu pai contaba como un tormento, como se lle arrincasen as amígdalas coa man, a maneira en que o mestre Iles arrincaba a gheada da fala para que non dixesen aghua nin ghato nin ghracias.
“Todas as mañás tiñamos que dicir a frase Los pájaros de Guadalajara tienen la garganta llena de trigo. Moitos paus levamos por culpa de Ghuadalagara!” Se de verdade quería meterme medo, conseguiuno. A noite da véspera non durmín. Encollido na cama, escoitaba o reloxo de parede na sala coa anguria dun condenado. O día chegou cunha claridade de mandil de carniceiro. Non mentiría se lle dixese aos meus pais que estaba enfermo.
O medo, como un rato, roíame os adentros.
E mexei por min. Non mexei na cama senón na escola. Recórdoo moi ben. Pasaron tantos anos e aínda sinto unha humidade cálida e vergoñenta escorregando polas pernas. Estaba sentado no derradeiro pupitre, medio agachado coa esperanza de que ninguén se decatase da miña existencia, até poder saír e botar a voar pola Alameda.
“A ver, vostede, póñase en pé!”
O destino sempre avisa. Levantei os ollos e vin con espanto que a orde ía por min. Aquel mestre feo como un bicho sinalábame coa regra. Era pequena, de madeira, mais a min pareceume a lanza do temido guerreiro Abd el-Krim.
“Cal é o seu nome?”
“Pardal”.
Todos os nenos riron a gargalladas. Sentín como se me batesen con latas nas orellas.
“Pardal?”
Non recordaba nada. Nin o meu nome. Todo o que eu fora deica entón desaparecera da miña cabeza. Os meus pais eran dúas figuras borrosas que se esvaían na memoria. Mirei cara ao ventanal, buscando con anguria as árbores da alameda.
E foi entón cando mexei por min.
Cando se decataron os outros rapaces, as gargalladas aumentaron e resoaban como trallazos.
Fuxín. Botei a correr como un toliño con ás. Corría, corría como só se corre en soños e vén tras dun o Sa-caúntos. Eu estaba convencido de que iso era o que facía o mestre. Vir tras de min. Podía sentir o seu alento na caluga e o de todos os nenos, como manda de cans á caza clun raposo. Mais cando cheguei á altura do palco da música e mirei cara atrás, vin que ninguén me seguira, que estaba só co meu medo, empapado de suor e mexos. O palco estaba baleiro. Ninguén parecía reparar en min, mais eu tiña a sensación de que toda a vila estaba a disimular, que ducias de ollos censuradores axexaban nas fiestras, e que as linguas murmuradoras non tardarían en levarlle a nova aos meus pais. As pernas decidiron por min. Camiñaron cara ao Sinaí cunha determinación descoñecida deica entón. Esta vez chegaría á dársena da Coruña e embarcaría de polisón nun deses navíos que levan a Buenos Aires.
Desde o cume clo Sinaí non se vía o mar senón outro monte máis grande aínda, con penedos recortados como torres dunha fortaleza inaccesíbel. Agora recordo cunha mestura de asombro e saudade o que fun quen de facer aquel día. Eu só, no cumio, sentado en cadeira de pedra, baixo as estrelas, mentres no val se movían como vagalumes os que con candil andaban á miña procura. O meu nome cruzaba a noite ao lombo dos ouveos dos cans. Non estaba abraiado. Era como se atravesase a liña do medo. Por iso non chorei nin me resistín cando chegou onda min a sombra rexa de Cordeiro. Envolveume co seu chaquetón e elevoume no colo.
“Tranquilo Pardal, xa pasou todo”.
Durmín como un santo aquela noite, pegadiño á nai. Ninguén me rifara. O meu pai ficara na cociña, fumando en silencio, cos cóbados sobre o mantel de hule, as cabichas amoreadas no cinceiro de cuncha de vieira, tal como pasara cando morrera a avoa.
Tiña a sensación de que a miña nai non me soltara a man en toda a noite. Así me levou, agarrado como quen leva un seirón, na miña volta á escola. E nesta ocasión, co corazón sereno, puiden fixarme por vez primeira no mestre. Tiña a cara dun sapo.
O sapo sorría. Beliscoume a meixela con agarimo.
“Gústame ese nome, Pardal”. E aquel belisco feriume como un doce de café. Pero o máis incríbel foi cando, no medio dun silencio absoluto, me levou da man cara á súa mesa e me sentou na súa cadeira. El ficou de pé, colleu libro e dixo:
“Temos un novo compañeiro. E unha alegría para todos e imos recibilo cun aplauso”. Pensei que ía mexar de novo polos pantalóns, mais só notei unha humidade nos ollos.
“Ben, e agora, imos comezar cun poema. A quen Ile toca? Romualdo? Veña, Romualdo, achégate. Xa sabes, amodiño e en voz ben alta”.
A Romualdo os pantalóns curtos quedábanlle ridículos. Tiña as pernas moi longas e mouras, cos xeonllos cheos de feridas.
Una tarde parda y fría…
“Un momento, Romualdo, que é o que vas ler?”
“Unha poesía, señor”.
“E como se titula?”
“Recuerdo infantil. O seu autor é don Antonio Machado”.
“Moi ben, Romualdo, adiante. Amodiño e en voz alta. Repara na puntuación”
O chamado Romualdo, a quen eu coñecía de carrexar sacos de piñas como neno que era de Altamira, carraspeou como un vello fumador de picadura e leu cunha voz incríbel, espléndida, que parecía saída da radio de Manolo Suárez, o indiano de Montevideo.
Una tarde parda y fría
de invierno. Los colegiales
estudian. Monotonía
de lluvia tras los cristales.
Es la clase. En un cartel
se representa a Caín
fugitivo, y muerto Abel,
junto a una mancha carmín…
“Moi ben. Que significa monotonía de lluvia, Romualdo?” preguntou o mestre.
“Que chove despois de chover, don Gregorio”.
“Rezaches?”, preguntou mamá, mentres pasaba o ferro pola roupa que papá cosera durante o día. Na cociña, a pota da cea despedía un arrecenclo amargo de nabiza.
“Pois si”, dixen eu non moi seguro. “Unha cousa que falaba de Caín e Abel’.
“Iso está ben”, dixo mamá. “Non sei por que din que ese novo mestre é un ateo”.
“Que é un ateo?”
“Alguén que di que Deus non existe”.
Mamá fixo un aceno de desagrado e pasou o ferro con enerxía polas engurras dun pantalón.
“Papá é un ateo?”
Mamá pousou o ferro e miroume fite.
“Como vai ser papá un ateo? Como se che ocorre preguntar esa parvada?”
Eu escoitara moitas veces a meu pai blasfemar contra Deus. Facíano todos os homes. Cando algo ía mal, cuspían no chan e dicían esa cousa tremenda contra Deus. Dicían as dúas cousas: Cagho en Deus, cagho no Demo. Parecíame que só as mulleres crían de verdade en Deus.
“E o Demo? Existe o Demo?”
“Por suposto!”
O fervor facía bailar a tapa da pota. Daquela boca mutante, con enxivas de verza, saían bafaradas de vapor e gargallos de escuma. Unha avelaíña revoaba no teito arredor da lámpada eléctrica que penduraba do cable trenzado. Mamá estaba enfurruñada como cada vez que tiña que pasar o ferro. A súa cara tensábase cando marcaba a raia clas perneiras. Mais agora falaba nun ton suave e algo triste, como se se referise a un desvalido.
“O Demo era un anxo, pero fíxose malo”.
A avelaíña bateu contra a lámpada, que abaneou lixeiramente e desordenou as sombras.
“O mestre dixo hoxe que as bolboretas tamén teñen lingua, unha lingua finiña e moi longa, que levan enrolada como o resorte dun reloxo. Váinola ensinar cun aparello que Ile teñen que mandar de Madrid. A que parece mentira iso de que as bolboretas teñan lingua?”
“Se el o di, é certo. Hai moitas cousas que parecen mentira e son verdade. Gustouche a escola?”
“Moito. E non pega. O mestre non pega”.
Non, o mestre don Gregorio non pegaba. Pola contra, case sempre sorría coa súa cara de sapo. Cando dous pelexaban no recreo, el chamábaos, “parecedes carneiros”, e facia que se desen a man. Logo, sentábaos no mesmo pupitre. Así foi como fixen o meu mellor amigo, Domboclán, grande, bondadoso e torpe. Había outro rapaz, Eladio, que tiña un lunar na meixela, no que mallaría con gusto, mais nunca o fixen por medo a que o mestre me mandase darlle a man e que me cambiase de xunto a Dombodán. O xeito que tiña don Gregorio de mostrar un grande enfado era o silencio.
“Se vós non calacles, terei que calar eu”.
E ía cara ao ventanal, coa mirada ausente, perdida no Sinaí. Era un silencio prolongado, desacougante, como se nos cleixase abandonados nun estraño país. Sentín pronto que o silencio clo mestre era o peor castigo imaxinábel. Porque todo o que tocaba era un conto engaiolante. O conto podía comezar cunha folla de papel, despois de pasar polo Amazonas e a sístole e diástole do corazón. Todo enfiaba, todo tiña sentido. A herba, a ovella, a la, a miña friaxe. Cando o mestre se dirixía ao mapamundi, ficabamos atentos como se se iluminase a pantalla do cine Rex. Sentiamos o medo dos indios cando escoitaron por vez primeira o rincho dos cabalos e o estoupido do arcabuz, lamos ao lombo dos elefantes de Aníbal de Cartago polas neves dos Alpes, camiño de Roma. Loitamos con paus e pedras en Ponte Sampaio contra as tropas de Napoleón. Mais non todo eran guerras. Faciamos fouces e rellas de arado nas ferrerías do Incio. Escribimos cancioneiros de amor en Provenza e no mar de Vigo. Construímos o Pórtico da Gloria. Plantamos as patacas que viñeran de América, E a América emigramos cando veu a peste da pataca.
“As patacas viñeron de América”, díxenlle á miña nai no xantar, cando deitou o prato diante miña.
“Que ían vir de América! Sempre houbo patacas”, sentenciou ela.
“Non. Antes comíanse castañas. E tamén veu de América o maínzo”. Era a primeira vez que tiña clara a sensación de que, grazas ao mestre, sabía cousas importantes do noso mundo que eles, os pais, descoñecían.
Pero os momentos máis fascinantes da escola eran cando o mestre falaba dos bichos. As arañas de auga inventaban o submarino. Os zapateiros hemípteros, os hidroavións. As formigas coidaban dun gando que daba leite con azucre e cultivaban cogomelos. Había un paxaro en Australia que pintaba de cores o seu niño cunha especie de óleo que fabricaba con pigmentos vexetais. Nunca me esquecerei. Chamábase o tilonorrinco. O macho puña unha orquídea no novo niño para atraer a femia.
Tal era o meu interese que me convertín no subministrador de bichos de don Gregorio e el acolleume como o mellor discípulo. Había sábados e festivos que pasaba pola miña casa e iamos xuntos de excursión. Percorriamos as beiras do río, as gándaras, a fraga, e subiamos ao monte Sinaí. Cada viaxe desas era para min como unha ruta do descubrimento. Volviamos sempre cun tesouro. Unha mantis. Un cabaliño do demo. Un escornabois. E unha bolboreta distinta de cada vez, aínda que eu só recorde o nome dunha á que o mestre chamou Iris, e que brillaba fermosísima pousada na lama ou no esterco.
De regreso, cantabamos polas corredoiras como dous vellos compañeiros. Os luns, na escola, o mestre dicía: “E agora imos falar dos bichos de Pardal”.
Para os meus pais, esas atencións do mestre eran unha honra, Aqueles clías de excursión, a miña nai preparaba a merenda para os dous. “Non fai falta, señora, eu xa vou comido”, insistía don Gregorio. Pero á volta, dicía: “Grazas, señora, exquisita a merenda”.
“Estou segura cle que passa necesidades”, dicía a miña nai pola noite.
“Os mestres non gañan o que tiñan que gañar”, sentenciaba, con sentida solemnidade, o meu pai. “Eles son as luces da República”.
“A República, a República! Xa veremos onde vai parar a República!”
O meu pai era republicano. A miña nai, non. Quero dicir que a milha nai era de misa diaria e os republicanos aparecían como inimigos da Igrexa. Procuraban non discutir cando eu estaba diante, mais ás veces sorprendíaos.
“Que tes ti contra Azaña? Esa é cousa do cura, que vos anda quentando a cabeza”.
“Eu á misa vou rezar”, clicía a miña nai.
“Ti, si, mais o cura non”.
Un día que don Gregorio veu recollerme para ir buscar bolboretas, o meu pai clíxolle que, se non tiña inconveniente, Ile gustaría tomarlle as medidas para un traxe.
“Un traxe?”
“Don Gregorio, non o tome a mal. Quixera ter unha atención con vostede. E o que sei facer son traxes”.
O mestre mirou arredor con desconcerto.
“É o meu oficio”, dixo o meu pai cun sorriso.
“Respecto moito os oficios”, dixo por fin o mestre.
Don Gregorio levou posto aquel traxe durante un ano e levábao tamén aquel día de xullo de 1936 cando se cruzou comigo na alameda, camiño do concello.
“Que hai, Pardal? A ver se este ano podemos verlles por fin a lingua ás bolboretas”.
Algo estraño estaba a suceder. Todo o mundo parecía ter présa, mais non se movía. Os que miraban cara adiante, daban a volta. Os que miraban para a dereita, viraban cara á esquerda. Cordeiro, o recolledor de lixo e follas secas, estaba sentado nun banco, a carón do palco da música. Eu nunca vira sentado nun banco a Cordeiro. Mirou cara arriba, coa man de viseira. Cando Cordeiro miraba así e calaban os paxaros era que viña unha treboada.
Sentín o estrondo dunha moto solitaria. Era un garda cunha bandeira suxeita no asento de atrás. Pasou diante clo concello e mirou cara aos homes que conversaban inquedos no porche, Berrou, brazo en alto: “Arriba España!” E arrincou de novo a moto deixando atrás un ronsel de estalos.
As nais comezaron a chamar polos nenos. Na casa, parecía ter morto outra vez a avoa. O meu pai amoreaba cabichas no cinceiro e a miña nai choraba e facía cousas sen sentido, como abrir a billa da auga e lavar os pratos limpos e gardar os sucios.
Petaron á porta e os meus pais miraron o pomo con desacougo. Era Amelia, a veciña, que traballaba na casa de Suárez, o indiano.
“Sabedes o que está pasando? Na Coruña os militares declararon o estado de guerra. Están disparando canonacontra o Goberno Civil”.
“Santo ceo’”, persignouse a miña nai.
“E aquí”, continuou Amelia en voz baixa, como se as paredes oísen, “disque o alcalde chamou ao capitán de carabineiros e este manclou dicir que estaba enfermo”.
Ao día seguinte non me deixaron saír á rúa. Eu miraba pola fiestra e todos os que pasaban me parecían sombras fuñivas, como se de súpeto caese o inverno e o vento arrastrase os pardais da Alameda ao xeito de follas secas.
Chegaron tropas da capital e ocuparon o concello. Mamá saíu para ir á misa e volveu pálida e tristeira, como se se fixese vella en media hora.
“Están pasando cousas terríbeis, Ramón”, oín que lle dicía, entre sabucos, ao meu pai. Tamén el envellecera. Peor aínda. Parecía que perdera toda vontade. Esfondárase nunha butaca e non se movía. Non Palaba. Non quería comer.
“Hai que queimar as cousas que te comprometan, Ramón. Os periódicos, os libros. Todo”.
Foi a miña nai a que tomou a iniciativa aqueles días. Unha mañá fixo que o meu pai se arranxase ben e levouno con ela á misa. Cando volveron, díxome: “Veña, Moncho, vas vir connosco á alameda”. Tróuxome a roupa de festa e, mentres me axudaba a anoar a gravata, díxome en voz moi grave: “Recorda isto, Moncho. Papá non era republicano. Papá non era amigo do alcalde. Papá non falaba mal dos curas. E outra cousa moi importante, Moncho. Papá non lle regalou un traxe ao mestre”.
“Si que llo regalou”.
“Non, Moncho. Non llo regalou. Entendiches ben? Non llo regalou!”
“Non, mamá, non llo regalou”.
Había moita xente na Alameda, toda con roupa de domingo. Baixaran tamén algúns grupos das aldeas, mulleres enloitadas, paisanos vellos de chaleco e sombreiro, nenos con ar asustado, precedidos por algúns homes con camisa azul e pistola ao cinto. Dúas fileiras de soldados abrían un corredor desde a escalinata do concello até uns camións con remolque atoldado, como os que se usaban para transportar o gando na feira grande. Mais na alameda non había o balbordo clas feiras senón un silencio grave, de Semana Santa. A xente non se saudaba. Nin sequera parecían recoñecerse os uns aos outros. Toda a atención estaba posta na fachada do concello.
Un garda entreabriu a porta e percorreu o xentío coa mirada. Logo abriu de todo e fixo un aceno co brazo. Da boca escura do edificio, escoltados por outros gardas, saíron os detidos, ían atados de mans e pés, en silente cordada. Dalgúns non sabía o nome, mais coñecía todos aqueles rostros. O alcalde, os dos sindicatos, o bibliotecario do ateneo Resplandor Obreiro, Charli, o vocalista da orquestra Sol e Vida, o canteiro a quen chamaban Hércules, pai de Dombodán… E ao cabo da cordada, chepudo e feo como un sapo, o mestre.
Escoitáronse algunhas ordes e berros illados que resoaron na Alameda como petardos. Pouco a pouco, da multitude foi saíndo un ruxerruxe que acabou imitando aqueles alcumes.
“Traidores! Criminais! Roxos!”
“Berra ti tamén, Ramón, polo que máis queiras, berra!” A miña nai agarraba do brazo a papá, como se o suxeitase con toda a súa forza para que non desfalecese, “Que vexan que berras, Ramón, que vexan que berras!”
E entón oin como o meu pai dicía “Traidores!” cun fío de voz. E logo, a cada vez máis forte, “Criminais! Roxos!” Soltou do brazo á miña nai e achegouse máis á fileira dos soldados, coa mirada enfurecida cara ao mestre. “Asasino! Anarquista! Comenenos!”
Agora mamá trataba de retelo e tiroulle da chaqueta discretamente. Mais el estaba fóra de si. “Cabrón! Fillo de mala nai!” Nunca lle escoitara chamar iso a ninguén, nin sequera ao árbitro no campo de fútbol. “A súa nai non ten a culpa, eh, Moncho?, recorda iso”. Agora volvíase cara a min entolecido e empuxábame coa mirada, os ollos cheos de bágoas e sangue. “Bérralle ti tamén, Monchiño, bérralle ti tamén!”
Cando os camións arrincaron cargados de presos, eu fun un dos nenos que corría detrás lanzando pedras. Buscaba con desespero o rostro do mestre para chamarlle traidor e criminal, Mais o convoi era xa unha nube de po ao lonxe e eu, no medio da alameda, cos puños pechados, só fun capaz de murmurar con rabia: “Sapo! Tilonorrinco! Iris”.
PARTNERS
The Ostana Prize celebrates the international support received
from the UNESCO International Decade of Indigenous Languages, and from two reference institutions in the linguistic field: the ELEN network (European Language Equality Network) and the NPLD network (Network to Promote Linguistic Diversity).